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giovedì 10 settembre 2015

Diario di bordo: Tfa, secondo ciclo, seconda parte

Il primo trimestre arrivano gli insegnanti di pedagogia che insegnano come insegnare a chi già insegna. Qualcuno li ascolta perché per il corso ha pagato quasi tremila euro, qualche altro non li ascolta per lo stesso motivo. Tutti ci annoiamo da morire.
La maggior parte dei docenti ci spiega che dobbiamo promuovere lo sviluppo di competenze negli alunni in ottica inclusiva, possibilmente adottando tecniche didattiche diversificate, al passo con i tempi reali e digitali, e lontane dalla barbosa didattica tradizionale, ormai superata. 
Tengo a precisare che la pappardella ci viene vomitata addosso attraverso splendide lezioni frontali monologate, che hanno una durata media che va dalle due alle quattro ore, se siamo fortunati con una pausa centrale di dieci minuti. 

Sospiriamo, io leggo i romanzi di nascosto. 

La prima cosa che impariamo quando parliamo di handicap è di non chiamarlo mai con il suo nome, ma di nasconderlo dietro il nome del ragazzo che lo porta, per rispetto, ci dicono. 
In classe ho un caso di autismo. SBAGLIATO. Sei matto? E' umiliante. Devi dire. In classe c'è Federico che è affetto da autismo.
Peccato che poi come compito per casa ci diano da scrivere uno studio di caso.

Una docente di didattica speciale ci tratta a priori come se avessimo picchiato un disabile. Ci ordina di alzare la mano se ci riteniamo persone normali. Pronuncia la parola normali come se fosse sinonimo di serial killer
Nessuno si muove, un po' per omologazione, un po' per farla tacere il prima possibile. 
Sostituiamo le parole tabù - cieco, zoppo, handicappato - con tecnicismi più anonimi - ipovedente, BES, DSA. Uno studioso americano che avevo inserito nella mia tesi si chiedeva provocatoriamente "l'invalido si alza dalla carrozzella se lo chiami ipocinetico?"
In Italia pare di sì.

Non vedo l'ora che arrivino gli insegnanti di lettere, dice qualcuno.
Il secondo trimestre arrivano. Didattica della letteratura, della storia, della geografia, educazione linguistica.
Sono tutti miei ex docenti universitari che dichiarano apertamente che loro a scuola non hanno mai insegnato e che odiano i pedagogisti. Sta volta nessuno ci insegna come insegnare, abbiamo l'onore di ascoltare degli pseudo corsi monografici, brutte copie di programmi che troviamo pari pari sul sito di unipd, già pensati per le lauree triennali.
Quella di letteratura ci racconta Il conte pecoraio, quello di storia le Annales, l'insegnante di educazione linguistica si ingarbuglia proponendoci modelli di grammatica valenziale che lei stessa fatica ad interpretare.

Sopportiamo facendo il conto alla rovescia, quanto manca alla fine? 
Impariamo a chi non vogliamo somigliare. Mai.

(continua..)


Ti sei perso la prima parte? Eccola!

giovedì 23 luglio 2015

Diario di bordo: Tfa, secondo ciclo, prima parte

Siamo in cento e poco più. Iniziamo un pomeriggio di gennaio, in un'aula a gradoni. Qualcuno riconosce qualche vecchio compagno di università. Qualche fortunato è già seduto vicino a un paio di amici. Io sono in seconda fila, mi metto nel posto più esterno in modo da essere comoda se ho bisogno di uscire. Davanti a me c'è una ragazza seduta su una ciambella e con un bambino in braccio. Ha partorito da cinque giorni. Non è l'unica. I neo genitori non godono di alcun permesso. Hanno la frequenza obbligatoria come gli altri: si può saltare solo il trenta per cento di ogni lezione. Questo significa che se un insegnamento dura due ore si possono saltare al massimo 34 minuti. Ogni assenza va comunque giustificata e recuperata con lavori da fare a casa.
Dopo due settimane i bambini presenti al corso cominciano ad ammalarsi, uno finisce all'ospedale. 
Ci dicono di non preoccuparci, che tutto andrà bene. 
Due tutor ci prendono le firme all'entrata e all'uscita. Gli insegnanti ci invitano a fare le spie se vediamo qualcuno falsificarle, è una delle poche cose che porta all'esclusione immediata dal Tfa. Ci pregano di essere puntali nonostante si arrivi da lontano. Io mi sveglio alle sette vado al lavoro, pranzo all'una, all'una e mezza sono in autostrada, alle tre sono in aula e alle sette mi rimetto al volante per tornare a casa. Rientro col buio. Tutto sommato sono fortunata: qualcuno deve prendere il treno, qualche altro viene da Mantova, dal Friuli o dalla Toscana e si è dovuto trasferire a Padova. 
Io fino ad aprile riesco a tenere il mio lavoro. E' dura. Qualche volta piango. Soprattutto il sabato.
Ogni week-end abbiamo i laboratori. Interi pomeriggi passati a simulare progetti, analizzare documenti, elaborare rubriche di valutazione che verranno a loro volta valutate. In poco tempo inserisco la modalità scrittura automatica, dobbiamo redigere una quantità esorbitante di relazioni che nessuno leggerà mai, ma che saranno la testimonianza del nostro constante impegno. Per riuscire a consegnare tutto dobbiamo consumare la notte o programmare le sveglie almeno un'ora prima.
Chi lavora in ufficio lascia il posto, prende aspettativa o chiede il part time.
Io ho ventinove anni, a casa ho solo Marco, lo vedo poco e ci litigo spesso. Chi ha famiglia vede i figli solo nei ritagli di tempo. C'è chi a cinquant'anni è ancora precario, c'è chi vuole fare il professore perché il dottorato l'ha deluso, c'è chi ha accettato il calvario della scuola perché crede ancora che insegnare sia un mestiere bellissimo.
Siamo tutti ugualmente stanchi, non c'è pietà per nessuno. Cominciamo a scalare una montagna senza sapere quanto alta sia e se in vetta ci sia un rifugio.
Speriamo di non cadere.

(Continua...)


mercoledì 29 gennaio 2014

Cronaca allegra di un sabato pieno di panico.

Apro gli occhi e lo stomaco si chiude. Mi aspetto di vomitare almeno un paio di volte e invece no. La paura fa colare giù per l'intestino tutto quello che mangio, devo correre in bagno abbastanza spesso, tanto da avere il sedere irritato a fine giornata.

Per chi non lo sapesse sabato scorso ha debuttato in teatro il mio primo spettacolo. Ne scrivo soprattutto per quel somaro di mio zio che non è riuscito a venire e poi mi manda gli sms chiedendomi di parlarne qui sul Pesce.

Pioveva, pioveva tantissimo.

Arriviamo a Padova che le prove non sono ancora iniziate. Laura, l'attrice, si è lisciata i capelli, ha un po' di raffreddore e gli occhi concentrati. Parla da sola. Ha la voce fumosa, da contralto. Ripete il monologo e fa gli esercizi per scaldare la gola. Intanto gli altri montano la scenografia, che vedo per la prima volta ed è esattamente come Lorenzo me l'aveva descritta. Lo scenografo, Alberto Nonnato, se fosse un albero sarebbe un cipresso. Alto e silenzioso, mi stringe la mano con delicatezza e io mi sento eccessiva.
Parlo parecchio per esorcizzare la paura, che deve uscire in qualche modo, visto che non ho più un water a disposizione.

Decidiamo di andare in albergo e lasciare gli altri concentrarsi come si deve. In camera faccio una capriola sul letto matrimoniale come mi capitava da bambina. Svuoto il beauty case sopra il comodino e mi accorgo di non aver portato il fondotinta, grave mancanza, visto che intorno al mento è comparsa una costellazione di ponfi piuttosto evidenti. Se ancora non l'aveste capito tendo a somatizzare.
Parecchio.
Mi faccio un bel pezzo di strada sotto il diluvio per andare a ricomprarlo. Quando rientro mi butto sotto la doccia, cerco l'asciugacapelli in valigia. Non c'è, ma ritrovo il fondotinta vecchio.
Mi pare giusto.

Ci prepariamo e andiamo a mangiare da Paola che, secondo tradizione, ci cucina mezzo chilo di amatriciana piccante come facevamo all'università quando eravamo coinquiline. La birra alleggerisce i pensieri e cominciamo a prenderla in ridere. Arriviamo in teatro col cuor contento, un pochino troppo. Quando apro la porta e scopro la folla che aspetta, mi si ghiacciano i polmoni e divento di pessimo umore.

La postumità effettivamente può essere una misura drastica, ma efficace, per gli autori che come me soffrono di asocialità acuta.

Lo spettacolo inizia che il mio cuore corre all'impazzata. Si calma quando il pubblico comincia a ridere, con la coda dell'occhio controllo Lorenzo, che in regia traffica col mixer. Laura si trasforma e incanta. Alberto mi fa l'occhiolino e un cenno con la testa, sta andando tutto bene. Davanti a me c'è un uomo che continua a tossire e che a metà spettacolo ha la brillante idea di scartare una caramella facendo un sacco di rumore. Gli staccherei la testa con un destro a tradimento.

Il finale arriva presto con un sospiro di sollievo.
Ci sono gli applausi, mi costringono ad andare a prenderli sul palco, insieme all'attrice e al regista. Mi tremano un po' le gambe e non capisco più niente.

Poi è stato un carnevale e scrivere è ancora più bellissimo.


lunedì 23 dicembre 2013

Uno spettacolo

In spiaggia sette anni fa ho conosciuto uno che ho sospettato subito. Vorrei fare l'attore, mi aveva detto. Io la scrittrice gli avevo risposto. Quando la sera abbiamo cantato al karaoke davanti a una platea di crucchi ammollati a bordo piscina ho capito che probabilmente ci sarei potuta andare d'accordo.
Riassumo così i nostri sette anni: io ho continuato a scrivere, lui a recitare. Si è diplomato all'Accademia del Verdi e poi è diventato regista. Questo novembre ha debuttato allo Stabile del Veneto, insomma in spiaggia nessuno dei due aveva raccontato cazzate.

Non mi ricordo bene come me l'abbia chiesto. E nemmeno voglio tirarvela tanto lunga. Siamo andati a fare colazione una mattina calda che io avevo i capelli corti e una canotta a righe arancioni.
Facciamo uno spettacolo insieme, mi dice, scrivi qualcosa di bello e poi io lo metto in scena.
Lo sospetto ancora, perché al teatro credo fino a un certo punto, ho sempre preferito il cinema. Lo stesso pomeriggio però sotto la doccia mi viene un'idea geniale: ho la storia, sicché accetto. Gli dico, va bene, basta che tu mi compri il vestito da mettere alla prima (Lorenzo, te lo ricordo).
Lui mi dice, ok.

E insomma, scrivo lo spettacolo che non ho nessuna intenzione di raccontarvi perché assolutamente dovete venire a vederlo.
Segnatevelo, sabato 18 gennaio ai Carichi Sospesi di Padova, un teatrino piccolo piccolo ma davvero all'avanguardia, esce Il ciclo di Ilaria Vajngerl e Lorenzo Maragoni.

Ecco solo a dirvelo mi prende l'agitazione.

A recitarlo sarà una sola attrice, Laura Serena. E' veramente bravissima e non lo dico perché recita quello che ho scritto, cioè, anche. Diplomata al Piccolo di Milano, è impegnata in diversi lavori, recentemente ha recitato in Sior Tita Paron, uno spettacolo dello Stabile del Veneto che rinfresca e vivifica la drammaturgia dialettale, che finalmente non è più un fardello noioso per leghisti nostalgici, ma una vivace messa in scena che coinvolge e diverte senza sapere di stantio.

Quando l'ho conosciuta mi è piaciuta subito. E ragazzi, si è formato un trio che concedetemelo, spacca i culi. Ci capiamo alla perfezione, siamo diventati degli ingranaggi di una macchina che cresce. Per me che scrivo è emozionante vedere un personaggio prendere vita, è come aver fatto nascere una persona.

Ovviamente sono anche terrorizzata, continuo a sognarmi che qualcosa vada storto, magari Laura si dimentica le parole oppure crolla il palco, ma Lorenzo mi ha detto che è normale, benvenuta nel mondo del teatro.

Ecco dunque, mi appresto a concludere.

Parenti, amici, conoscenti e amati lettori. Siete tutti invitati sabato 18 gennaio 2014 alle 21.30 a vedere Il ciclo. Io, Lorenzo Maragoni e Laura Serena vi aspetteremo ai Carichi Sospesi di Padova, per il primo nostro spettacolo, insieme. Prenotate il biglietto.

Noi intanto incrociamo le dita, che dio ce la mandi buona.


domenica 29 settembre 2013

Cena con funghi

Il nostro gattino più che a un batuffolo somigliava a un condor senza piume. Gli mancava il pelo in svariati punti del corpo, pensavamo fossero segni di normali zuffe fra fratelli, era un gatto di fienile, cresciuto in una cucciolata numerosa senza alcuna premura.

L'avevamo adottato felici, lo si era chiamato Alex il Drugo, speriamo che le macchie spariscano in fretta, ci eravamo dette.

Solo che invece di sparire erano apparse a noi. Dappertutto. Eravamo andate dal veterinario, che ci aveva visitati, noi e il gatto. Diagnosi: questa è micosi, dovete curarvi subito, siete impestati.
Lara era stata colpita soprattutto al volto, l'abbronzatura era diventata simile alla pittura di una stanza abbandonata, si scrostava lasciando chiazze più chiare bordate di scuro.

Così c'eravamo comprate la pomata ed era arrivato dicembre. Avevamo deciso di cucinare la cena di natale per le amiche di università, una decina, le più strette. 
Tra chiacchiere, farina e fumo avevamo preparato le orecchiette fatte in casa, due vassoi belli colmi. Alle sette avevamo preso i bicchieri, impilato i piatti e cercato la tovaglia. La tovaglia che mai il nostro appartamento aveva posseduto.

E quindi. Riunione straordinaria fra coinquiline: non possiamo fare mangiare le altre senza la tovaglia, cosa cazzo facciamo?

C'eravamo guardate intorno. Il Drugo stava spaparanzato sul divano, beato e brutto, come solo lui poteva essere.

Ed eccola. 
All'improvviso mi era venuta l'idea del secolo: usiamo il copri divano del gatto. Come tovaglia sarebbe abbastanza grande, ed è a righe bianche e azzurre, rallegriamo la stanza. Cosa ne dite?
Paola ci aveva pensato su e aveva detto, sì dai, ok, ma visto che non possiamo lavarlo almeno sbattiamolo.

Su il divano universitario oltre alla micosi si era depositato molto, molto altro. Non aggiungo dettagli. Sappiate che finché scrivo, ora, sto ridendo imbarazzata, chiedendomi come abbiamo potuto.

Perché sì, davvero, l'abbiamo fatto. Abbiamo apparecchiato la tavola con la nostra tovaglia a righe e la nostra faccia tosta.
Sarà mica pericoloso, avevo chiesto a Paola, la micosi ti può venire agli organi interni?
Bo, mi aveva risposto Paola.

Era stata una cena deliziosa. Le orecchiette erano piaciute a tutte, nessuna si era accorta di niente.

Prima di svelare questo piccolo segreto ho chiesto il permesso alle mie ex coinquiline.
Alle altre amiche presenti a quella cena dico: sono contente che siate vive!

E un applauso agli anticorpi.


venerdì 3 agosto 2012

Afa


Quando le vetrine hanno smesso di ingoiare occhi e i tetti cominciano a guardare la luna, scendo in strada. Respiro l'odore d'estate, che qui sa di asfalto mischiato al sole. 

Trascorrevo le sere d'agosto in terrazzo, a contare i turisti che indossavano i sandali coi calzini. 

Quando passo davanti al Santo sono le due. E mi chiedo se i piccioni che hanno scelto di farsi il nido sotto le cupole ascoltino le preghiere che evaporano dai corpi sudati dei pellegrini e galleggiano verso il cielo.

Sotto i portici l'odore di sigaretta si mischia al rumore dei miei passi, forse dovrei cambiare direzione, le rotaie del tram mi indicano la via per scappare dal centro.

giovedì 10 novembre 2011

Paola.

Camminiamo per strada alternando i versi che ci costringevano a recitare da bambine. Ci piace Novembre, perché è l'unica poesia che ricordiamo fino infondo. A Padova sotto i portici la voce sa di tempo leggero, che in un lampo c'è passato tra le dita. Quando dimentico una parola lei la riempie. Io le mostro come la vita sia una nebbia spessa, lei dice, la nebbia è solo bianco, io mi ci perdo dentro come quando indosso un problema e lo faccio diventare un vestito.
Quando soffoco lei mi spoglia.
Gemmea l'aria, ed il sole oggi sa solo di spento, Pascoli me lo ricorda il calendario. A San Martino cominciavamo a mettere il cappotto, la sera.
E invece oggi mi scalda la nostalgia.
E' l'estate fredda, dei morti.




Cit.   http://balbruno.altervista.org/index-212.html