mercoledì 29 gennaio 2014

Cronaca allegra di un sabato pieno di panico.

Apro gli occhi e lo stomaco si chiude. Mi aspetto di vomitare almeno un paio di volte e invece no. La paura fa colare giù per l'intestino tutto quello che mangio, devo correre in bagno abbastanza spesso, tanto da avere il sedere irritato a fine giornata.

Per chi non lo sapesse sabato scorso ha debuttato in teatro il mio primo spettacolo. Ne scrivo soprattutto per quel somaro di mio zio che non è riuscito a venire e poi mi manda gli sms chiedendomi di parlarne qui sul Pesce.

Pioveva, pioveva tantissimo.

Arriviamo a Padova che le prove non sono ancora iniziate. Laura, l'attrice, si è lisciata i capelli, ha un po' di raffreddore e gli occhi concentrati. Parla da sola. Ha la voce fumosa, da contralto. Ripete il monologo e fa gli esercizi per scaldare la gola. Intanto gli altri montano la scenografia, che vedo per la prima volta ed è esattamente come Lorenzo me l'aveva descritta. Lo scenografo, Alberto Nonnato, se fosse un albero sarebbe un cipresso. Alto e silenzioso, mi stringe la mano con delicatezza e io mi sento eccessiva.
Parlo parecchio per esorcizzare la paura, che deve uscire in qualche modo, visto che non ho più un water a disposizione.

Decidiamo di andare in albergo e lasciare gli altri concentrarsi come si deve. In camera faccio una capriola sul letto matrimoniale come mi capitava da bambina. Svuoto il beauty case sopra il comodino e mi accorgo di non aver portato il fondotinta, grave mancanza, visto che intorno al mento è comparsa una costellazione di ponfi piuttosto evidenti. Se ancora non l'aveste capito tendo a somatizzare.
Parecchio.
Mi faccio un bel pezzo di strada sotto il diluvio per andare a ricomprarlo. Quando rientro mi butto sotto la doccia, cerco l'asciugacapelli in valigia. Non c'è, ma ritrovo il fondotinta vecchio.
Mi pare giusto.

Ci prepariamo e andiamo a mangiare da Paola che, secondo tradizione, ci cucina mezzo chilo di amatriciana piccante come facevamo all'università quando eravamo coinquiline. La birra alleggerisce i pensieri e cominciamo a prenderla in ridere. Arriviamo in teatro col cuor contento, un pochino troppo. Quando apro la porta e scopro la folla che aspetta, mi si ghiacciano i polmoni e divento di pessimo umore.

La postumità effettivamente può essere una misura drastica, ma efficace, per gli autori che come me soffrono di asocialità acuta.

Lo spettacolo inizia che il mio cuore corre all'impazzata. Si calma quando il pubblico comincia a ridere, con la coda dell'occhio controllo Lorenzo, che in regia traffica col mixer. Laura si trasforma e incanta. Alberto mi fa l'occhiolino e un cenno con la testa, sta andando tutto bene. Davanti a me c'è un uomo che continua a tossire e che a metà spettacolo ha la brillante idea di scartare una caramella facendo un sacco di rumore. Gli staccherei la testa con un destro a tradimento.

Il finale arriva presto con un sospiro di sollievo.
Ci sono gli applausi, mi costringono ad andare a prenderli sul palco, insieme all'attrice e al regista. Mi tremano un po' le gambe e non capisco più niente.

Poi è stato un carnevale e scrivere è ancora più bellissimo.


mercoledì 22 gennaio 2014

Due di uno

C'è un uomo che cammina per le strade sempre vestito da festa. Le camicie sono pulite, tutte perfettamente stirate, l'impermeabile è abbinato al colore dell'ombrello, che è abbinato al colore che ha la pioggia da queste parti. Grigio tristezza. I capelli gli sono caduti, quando è troppo freddo indossa un berretto scuro, come gli occhiali da sole, piccoli e rettangolari, potrebbe fare il preside. 
Invece cammina tutto il santo giorno, entra in libreria senza mai comprarsi nulla. Succede così, tutte le volte. 

Prendi un thriller, dice prima.
I thriller poi non ti fanno dormire. Predi De Carlo, si risponde.

Una commessa gli si avvicina sorridente, gli offre aiuto.
Lui la ringrazia e dice che non serve, comprerà Due di due, non c'è dubbio. La commessa cerca in best seller il libro della Bompiani, versione economica. Solo che improvvisamente il signore cambia voce, non se ne parla, esplode, io voglio un thriller, signorina, mi dia qualcosa di nuovo.

La ragazza cerca in pedana, gli porge un libro con la copertina nera e il titolo in rilievo. Poi se la fila.

Guardiamo l'uomo tenere in mano i due tomi: De Carlo sulla sinistra, Terry Hayes sulla destra. Se ne resta immobile, a fissarsi le dita che stringono i volumi. Ha unghie ben curate. 
Penso, ecco, adesso il corpo si divide a metà e ciascuna va per la sua strada. 
Invece no. 
Poggia i libri in un angolo nascosto del settore romanzi a sfondo storico. Poi esce, prende l'ombrello, e ricomincia a camminare.

A essere in due in un corpo solo si legge poco e ci si sente soli.

mercoledì 15 gennaio 2014

Tre minuti

Salgo sul ring dopo un'ora abbondante di allenamento che mi distrugge le spalle e rende difficoltoso il respiro.
Più decentemente combatto meno pietà hanno i miei avversari, che in quanto unica donna hanno sempre avuto il buon gusto di andarci piano. Io mica tanto, nel senso che come moscerino ho sempre cercato di infastidire il più possibile i miei giganti, buoni e pazienti, qualcuno mi fa lo sgambetto qualche altro diventa rosso quando lo guardo negli occhi.
Salgo sul ring e dopo un anno e mezzo di flessioni le mie braccia sono diventate robuste, il pugno veloce. Riesco a chiacchierare anche col paradenti, sbavando un po', ma tanto sbavano tutti.
Suona il campanello e cominciano i tre minuti: dobbiamo darcele di santa ragione, per finta, di solito. Sono particolarmente gasata e dopo i primi diretti parati con destrezza o più probabilmente, particolare fortuna, vado a segno con un jab sul mento del nemico, che comunque ha il caschetto e viene ferito solo nell'orgoglio.
Smetto di essere femmina e cominciano i colpi veri.
Cerco di muovermi il più possibile, come ogni volta mi ricorda di fare l'allenatore, per stancare l'avversario e metterlo all'angolo. Il dettaglio che uno non considera è che più si fa stancare l'avversario più ci si stanca.
Sento i polsi diventare di piombo, fatico a tenerli alzati per coprirmi il viso. Non ho neanche il tempo per pensarlo che il mio avversario mi tira un gancio sulla mandibola, sento la faccia ruotare e il collo schioccare come i gusci di noce. Capisco l'utilità degli esercizi alla cervicale, che ho sempre snobbato perché poi mi viene la nausea.
In bocca ho un sapore di ruggine, tre minuti sembrano un'eternità, qualche volta.
Mi lascio prendere dalla stanchezza e di conseguenza mi becco un altro destro, sugli occhi questa volta. Non mi fa male, ma comincio a lacrimare come se piovesse.
Sono solo corpo, non ci sono più i libri, le considerazioni, le opinioni, il passato e il futuro. Mi sento viva.
E finalmente mi do una svegliata.
Paro i colpi e mi accorgo che il mio nemico usa una sequenza ripetitiva. La imparo a memoria, così la blocco. Riesco ad aprire la strada con un diretto sinistro e a piazzare il più bel gancio della mia breve carriera di pugile. Prendo il mio gigante giusto sull'orecchio, lo stordisco e con un impeto di coraggio - o totale incoscienza- punto il fegato.
Mi piego sulle ginocchia, divento piccola e mi catapulto in avanti.
Gli entro così bene nel ventre che un po' mi dispiace. Dura poco. Vengo travolta da altri due compagni che si stanno esercitando sopra il ring, mi investono come un treno ad alta velocità. Non si accorgono di niente. Mi busco una spallata fuori programma che mette ko la mia spavalderia.
Mi scanso e invoco la campana per attaccarmi agli elastici e farla finita. Anche il mio avversario ha gli occhi stravolti, gli dico e se la smettessimo un po' prima?  Uso le ultime energie per un occhiolino di disperazione. Funziona.
Si toglie i guantoni, si asciuga il sudore.

Se non diventerò scrittrice sapete dove trovarmi.

martedì 7 gennaio 2014

Prosciutto gatto

Ballarò detto Gnogni è stato il mio primo gatto. Dormivamo insieme quando ancora stavo in culla, bei tempi. Mia madre l'aveva portato in campagna da mia nonna, perché in estate riempiva di peli l'appartamento al quinto piano.

Da bambina tiravo tutte le code dei gatti cui passavo accanto come fossero state le corde delle campane la domenica mattina.
Una volta ci avevo messo troppo a scappare, Ballarò si era voltato e si era aggrappato al mio polpaccio, stringendolo bene con le unghie, tutte, e poi affondando i denti, tutti.
Portavo i pantaloncini corti e i calzettoni ricamati tirati su fino alle ginocchia. Avevo urlato, così mia nonna era corsa fuori e mi aveva preso in braccio. Le avevo piantato il muso perché voleva medicarmi e peggio del gatto era l'acqua ossigenata. Così le avevo proibito di abbassarmi i calzini e di controllare le ferite, che più che altro erano puntini rossi, avevamo guardato Beautiful in silenzio e io per consolazione avevo ricevuto una dose doppia di Fiorello e miele.

Mi è venuto in mente ieri, a pranzo, all'improvviso.

Per anni ho chiamato il prosciutto crudo prosciutto gatto, perché mi ricordava l'odore di Gnogni, mi rifiutavo di mangiarlo perché mi pareva che sapesse di baffi e croccantini e io i croccantini li avevo assaggiati davvero e facevano schifo.

Ballarò è morto investito, litigando con un gatto rosso, probabilmente per amore. Avevo nove anni, l'abbiamo messo in una bacinella azzurra e poi l'abbiamo seppellito in giardino, il primo di una lunga serie. La terra e gli anni hanno sbiadito i gusti e gli odori e a poco a poco anche i miei pensieri. Ho dimenticato il prosciutto gatto e ho cominciato a mangiare il prosciutto crudo senza fare storie.

Quando ero bambina è sempre più tempo fa ed è un peccato poter solo ricordare, sempre un po' peggio.