giovedì 25 agosto 2011

Al Faça e Garfo.

Faça in portoghese significa coltello. Ce l'aveva scritto una cameriera sulla maglietta.
Era sera e avevamo fame.
Andare a cena con Marco è piuttosto impegnativo, perché vorrebbe mangiare bene, spendere poco, provare qualcosa di nuovo, possibilmente goloso, che sia al contempo anche tipico. Non si deve entrare in un posto squallido, ma neanche in uno troppo formale. 

Io invece quando ho fame mangerei anche mio fratello sotto il tavolo, divento nervosa.

Eravamo a Lisbona, alla ricerca di un ristorantino che fosse  originale, sfizioso, carino e nuovo, appunto.
Sono sempre stata contraria agli aggettivi, io. Se se ne ammucchiano troppi ci si confonde. E Marco, come al solito era andato in corto circuito. Non sapeva scegliere e diceva, andiamo avanti, magari più in su c'è qualcosa di migliore. 
Più in su, ecco. 
Fermiamoci un momento.

Lisbona è una città di salite e di discese. Le case si inerpicano sulle colline come l'edera, i tram e gli elevadores salgono a fatica, rallentando a passo d'uomo quando la pendenza diventa massima.
Bene.

E adesso immaginate me  piena di fame e di buoni propositi che mi dico, resisti a te infondo va bene tutto, lascia che sia lui a decidere. La prima mezz'ora.
Poi la seconda attacco con le proposte, fermiamoci qui, dai, sembra buono!
Quando ammutolisco può essere per due ragioni. O mi sto per sparare o  gli sto per sparare.
La terza mezz'ora passo alle considerazioni sull'amore, se infondo ne valga davvero la pena, e mi vedo arrancante a settantanni, in giro col bastone e con tre nipotini  che urlano, in cerca di un posticino "più goloso", come dice lui.

Allora ero in silenzio da almeno dieci minuti, lui incalzava, forza, andiamo a vedere cosa c'è più in su.
In quel momento, pensavo che sarebbe stato bello che una tegola gli fosse caduta  in testa. 
E proprio non ce la faccio a salire ancora, lo guardo e biascico, io, entro lì. Se vuoi puoi accompagnarmi.

Il Faça e Garfo è stato un miracolo. Troppi aggettivi confondono e ti fanno perdere la via, ma quando, per caso, li trovi davvero riuniti tutti insieme, ti fanno stare che è una meraviglia. 
Mangiamo, spendendo poco,  piatti della migliore cucina portoghese. Si beve tanto vino. La cameriera è una ragazza simpatica, una di quelle che ti mettono di buon umore senza chiedere nulla in cambio.

Ha scritto faça sulla maglietta e noi, che non sappiamo una parola in portoghese, pensando che sia quello il suo nome di battesimo, la chiamiamo "coltello" per tutta la sera.

Con la pancia piena penso che arrivare a essere vecchi insieme, continuando a cercare "qualcosa di goloso", sia un trionfo.




sabato 20 agosto 2011

Esilio

Una bambina timida vorrebbe esistere senza essere vista.
E invece tutte le volte andava nella stessa maniera. Cominciava l'appello. Io aspettavo che si arrivasse alla V e le budella mi si stringevano, sentivo il cuore battere come quando correvo la campestre, scolorivo cercando di far finta di niente. Pronunciavano il mio cognome storpiandolo il più delle volte, succede ancora. E immancabilmente arrivava la domanda che tutti a quel punto avrebbero voluto pormi.

Da dove vieni? 

Una bambina timida allora si sente affogare negli sguardi, sente di esser obbligata a costruirsi una faccia rassicurante, si trova a dover imparare a giustificare una differenza che non vede.

Qualcuno mi ha detto di averlo capito subito che ero straniera. Dai lineamenti, dall'accento. 
Io mio nonno non l'ho mai conosciuto. Né sono stata nei luoghi in cui è nato, quelli in cui, la gente, si immagina io abbia vissuto.

Vaglielo a spiegare che parlavo poco non perché non sapessi la lingua, la nostra lingua, ma perché avevo paura di non essere abbastanza per trovarmi degli amici.

Una bambina timida ha gli occhi di un estraneo. Sono cittadina di una terra che non esiste.
Il mio esilio.

sabato 13 agosto 2011

Soldati.

Il tempo precario ha eliminato i futuri, si procede col condizionale, viviamo in un periodo ipotetico di cui non ci è concesso essere premesse, ma solo conseguenze di generazioni egoiste. 
Stiamo stipati su una barca senza ancore, preda delle correnti e delle maree, i giovani imbiancano sperando di trovare un inizio.
C'è chi si getta in mare, qualcuno nuota fino a riva, qualche altro annega. Quelli che rimangono a bordo hanno fatto occhi di granito, le lacrime sono diventate cristalli di sale, si vede, non si guarda, non si può più guardare.

Ci dicono di continuare a navigare, arriveremo a mondi migliori. 
Quando preparo il caffè mi viene in mente Ungaretti, si sta come d'autunno sugli alberi le foglie.

Il mio tempo mi ha messo la divisa, combattimi, mi dice.

sabato 6 agosto 2011

Da Carlotto

Arriviamo che sono le sette. Si entra facendosi largo tra gruppi di persone smozzicati, che si sgretolano e si ricompongono di continuo, a seconda degli umori e di chi offra da bere. All'interno l'aria sa vagamente di legno bagnato, tutti i respiri, stipati tra le bottiglie di vetro, le danno la gradazione alcolica, 15%, Biancorosso.
Carlotto è un posto appiccicoso. Le suole si attaccano al pavimento, se hai i tacchi non scivoli, se hai le sneakers scricchioli. Il rumore delle parole degli altri ti si incolla addosso anche se tu non ci fai caso, e quando esci ti ritrovi a sapere cose, neanche tu sai come.
Il Biancorosso si beve in piedi, anche se, quando arrivi al terzo, vorresti poterti sedere su un divano comodo e possibilmente dormire, solo un poco.
Carlotto mi ricorda l'Italia, come dovrebbe essere. Ci stiamo tutti, sempre.
La domenica poi si tiene chiuso, perché la domenica è un giorno di festa, non va dimenticata. Ci si ubriaca solamente nei giorni feriali, passi a bere un Biancorosso e arriva la sera che ti senti più leggero.
Usciamo per la cena.
E adesso che scrivo mi ricordo il sapore di Lisbona quando andavamo a berci una Ginjinha in una bettola in centro. Si era tranquilli, come quando si arriva in un posto nuovo, ma si sente che lì non potrà capitare mai niente di male, perché, ti pare, di esserci sempre stato.