Visualizzazione post con etichetta infanzia. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta infanzia. Mostra tutti i post

venerdì 29 gennaio 2016

Via XXIX Aprile n°38

Non so se l'ho già scritto, ma i miei primi dieci anni li ho trascorsi al quinto piano di un palazzone vicino alle scuole.
Mi piaceva abitare in un condominio perché c'erano altri bambini  che potevo comandare a bacchetta solamente esercitando i miei diritti di anzianità.
Ci nascondevamo dentro un cespuglio a progettare rivolte contro la signora del primo piano, che ci minacciava col bastone dal terrazzo quando giocavamo col pallone troppo vicini alla sua auto. Ci seguiva una gatta bianca completamente sorda, noi ogni tanto le urlavamo addosso parole a caso, per controllare che davvero non ci sentisse, e davvero non ci sentiva proprio.

I miei vicini di casa preferiti erano una coppia che non aveva avuto figli: lei era una sarta profumata di cipria, lui un uomo magro che da ragazzo aveva fatto i boy scout. Ivano teneva un cesto pieno di settimane enigmistiche, io sprofondavo nella sua poltrona a fiori per leggere le pagine centrali con le barzellette. Con sua moglie guardavamo Ultimo minuto stese sul lettone ed era bellissimo perché ci spaventavamo sul serio, ma poi ridevamo, perché terrorizzarci insieme era come un'avventura.

Riuscivo a essere una bambina felice solo quando mi sentivo protetta.

In estate nel nostro appartamento faceva caldo, così al tramonto spalancavamo tutte le finestre per far circolare il fresco, con la sera entravano anche i pipistrelli, così a mio padre toccava rincorrerli, e imprigionarli dentro una scatola da scarpe.

Al secondo piano abitava un vecchio che ci guardava dall'alto finché correvamo con le bici. Quando si stancava ci tirava un fischio come si fa coi cani, quello era il segnale per riunirci tutti sotto la sua finestra. Lui allora prendeva un barattolo di latta e liberava una cascata di caramelle alla frutta che ci pioveva addosso pizzicandoci la pelle. Chi aveva la Graziella col cestino era il più fortunato.

Fuori dal condominio avevo paura di tutto il mondo.
In via XXIX Aprile c'era la vita giusta, mi pareva e anche adesso, a scriverne, mi sembra così.

martedì 7 gennaio 2014

Prosciutto gatto

Ballarò detto Gnogni è stato il mio primo gatto. Dormivamo insieme quando ancora stavo in culla, bei tempi. Mia madre l'aveva portato in campagna da mia nonna, perché in estate riempiva di peli l'appartamento al quinto piano.

Da bambina tiravo tutte le code dei gatti cui passavo accanto come fossero state le corde delle campane la domenica mattina.
Una volta ci avevo messo troppo a scappare, Ballarò si era voltato e si era aggrappato al mio polpaccio, stringendolo bene con le unghie, tutte, e poi affondando i denti, tutti.
Portavo i pantaloncini corti e i calzettoni ricamati tirati su fino alle ginocchia. Avevo urlato, così mia nonna era corsa fuori e mi aveva preso in braccio. Le avevo piantato il muso perché voleva medicarmi e peggio del gatto era l'acqua ossigenata. Così le avevo proibito di abbassarmi i calzini e di controllare le ferite, che più che altro erano puntini rossi, avevamo guardato Beautiful in silenzio e io per consolazione avevo ricevuto una dose doppia di Fiorello e miele.

Mi è venuto in mente ieri, a pranzo, all'improvviso.

Per anni ho chiamato il prosciutto crudo prosciutto gatto, perché mi ricordava l'odore di Gnogni, mi rifiutavo di mangiarlo perché mi pareva che sapesse di baffi e croccantini e io i croccantini li avevo assaggiati davvero e facevano schifo.

Ballarò è morto investito, litigando con un gatto rosso, probabilmente per amore. Avevo nove anni, l'abbiamo messo in una bacinella azzurra e poi l'abbiamo seppellito in giardino, il primo di una lunga serie. La terra e gli anni hanno sbiadito i gusti e gli odori e a poco a poco anche i miei pensieri. Ho dimenticato il prosciutto gatto e ho cominciato a mangiare il prosciutto crudo senza fare storie.

Quando ero bambina è sempre più tempo fa ed è un peccato poter solo ricordare, sempre un po' peggio.

giovedì 4 aprile 2013

La banda

A Pasqua mia madre racconta di come sia stato per lei essere bambina. 

Si giocava tra i campi a rubare la frutta matura e a scappare dai forconi dei contadini, che si divertivano a inseguire per gioco mia madre e la sua banda. Per fare prima i fratelli più piccoli e con le gambe più corte attraversavano i letamai pieni di piscio di vacca.

Intanto mia madre aveva cominciato a spacciare peperoni. C'era un fruttivendolo che vendeva la verdura con l'Ape, ma in zona nessuno la comprava perché tutti avevano l'orto. L'orto di mio nonno aveva i migliori peperoni del quartiere. Quanto vuoi per quelli? Aveva chiesto il signore a mia madre. E mia madre gli aveva risposto il prezzo per comprarsi due barattoli di cipolline in agrodolce al supermercato. Da bambina le cipolline in agrodolce erano state la sua passione, insieme alle nocciole.
Affare fatto.
L'orto di mio nonno si svuotava a poco a poco, lo stomaco di mia madre si riempiva sempre di più.

E poi un giorno il gallo aveva attaccato il padre di Mireno- che gli aveva tirato il collo senza pensarci troppo e aveva cucinato il brodo. 
Il padre di Mireno non sapeva che due ore prima mia madre aveva chiesto a Dino e agli altri cosa facciamo? Mi annoio. E Mireno aveva risposto, ubriachiamo il gallo.
Avevano impastato il pane vecchio con la farina gialla e la crema Marsala. Dino teneva spalancato il becco dell'animale, Mireno e mia madre ci infilavano dentro i bocconi zuppi d'alcool.
Quando avevano liberato il gallo quello era diventato un diavolo. Loro avevano smesso di annoiarsi e avevano richiuso il pollaio, che si era trasformato in inferno.

Lo stesso Mireno, qualche tempo dopo, si era costruito l'elmetto da tedesco con l'asfalto fresco. L'aveva tenuto in testa tutta la giornata, e l'asfalto fresco sotto il sole di luglio si era trasformato in un guscio durissimo, impastato ai capelli. All'ospedale si erano tenuti il suo scalpo.

Mia madre dice che la sua infanzia è stata bellissima e basta guardarle gli occhi per capire che è vero.

venerdì 4 maggio 2012

Shakespeare

Da qualche parte c'è un diario da bambini, con la copertina morbida e il lucchetto dorato. 
Lo vorrei ritrovare.

Per diversi pomeriggi di un'estate degli anni Novanta decido di intraprendere la carriera di regista.
Regista e attrice. 
So a memoria Romeo e Giulietta, ho visto talmente tante volte il film di Zeffirelli che mi viene un'idea brillante.
Riscrivere la scena del balcone. 
Ovviamente obbligo mia sorella a sostenere il mio progetto. Lei lo sostiene se le regalo le Big-Babol alla Coca Cola e il mio Labello alla fragola. Mi sta bene.

Scriviamo il copione a quattro mani. Giulietta deve rifiutare Romeo. E deve farlo facendo ridere. Così ci infiliamo dentro le rime, che secondo noi bambine hanno il ritmo dell'allegria. Facciamo rimare le parole proibite, quelle che abbiamo imparato dai compagni di scuola, balcone-ciccione, ciccione-culone, culone-merdone.

Recitiamo in corridoio. Abbiamo aperto la scala di alluminio. Mia sorella si siede in cima, le ho messo in testa un velo azzurro. Mia madre ci applaude e io mi sento fiera.
Così lo voglio rifare ancora, ancora e ancora.

Finisce che mia sorella si stufi. 

-Io non gioco più.
-Non puoi, ti ho pagato.

Lei semplicemente scende dalla scala, si toglie il velo e con quello mi frusta. 
Io prendo il diario e cerco di tirarglielo in faccia.

Poi mi pento. 

-Se continuiamo anche domani ti regalo quello che vuoi.

E così reinterpretiamo l'atto primo del Sogno di una notte di mezza estate.

Poi succede che mia madre mi spedisca a comprare la carne in macelleria. 

Decido che forse preferirei fare la macellaia. 
La pollivendola, tutt'al più.







venerdì 28 ottobre 2011

Un buon capo.

Quando da bambino ti ritrovi a essere il più vecchio tra tutti i tuoi cugini impari a essere capo.
Un buon capo deve prendersi cura dei più piccoli, deve proporre battaglie coi vicini di casa solo quando è sicuro di vincere.
Un buon capo non deve annoiare la banda, deve avere inventiva. 
Facciamo vomitare Massimiliano, avevo proposto quella volta. Avevamo preso una tazza piena di acqua e ci avevamo sciolto sale, zucchero e limone. Bevi, è buonissimo. Lui, ignaro e obbediente aveva bevuto. Era ingrigito di colpo e aveva cominciato a vomitare.
Un buon capo deve convivere coi sensi di colpa. 
Se si decide di suonare i campanelli e poi scappare, un buon capo lo fa per primo.
Se si decide di suonare i campanelli, ma qualcuno potrebbe vederti, un buon capo deve saper delegare.

Un buon capo ha aiutanti. Odia i sosia.

Mia cugina voleva essere me. 
Un buon capo all'inizio accetta lusingato. 
Mia cugina picchiava gli altri per starmi vicina. Diceva, con lei ci sto io, tu vai via. 
Un buon capo avrebbe dovuto eleggerla suo braccio destro. Ma mia cugina imitava i gesti, ripeteva le frasi, si faceva comprare le stesse cose che i miei genitori avevano regalato a me. 
Un buon capo capisce subito quando arriva il momento giusto per smettere di essere buono. 
Si era fatta comprare anche il cd dei Chumbawamba. BAN! Una novenne, pensavo dall'alto dei miei undici anni, cosa vuole saperne dei Chumbawamba ?!?

I copioni vanno eliminati. Sempre.

Prima li ignori. Poi magicamente, la tua preferita diventa sua sorella, la minore. 
Se ancora insiste cerchi di farti odiare, a nascondino facevo contare sempre e comunque mia cugina. 
Se persevera hai tutto il diritto di passare alle mani.

Il problema arriva quando cresci e hai un'amica che adori.
Capita che facciate la stessa facoltà e che vi laureiate lo stesso giorno.

Quella volta l'ho chiamata, Eri, le ho detto, ho deciso il titolo della tesi! Il mio prof mi aveva raccomandato di scegliere un titolo che colpisse, di essere originale. Parlavo del motto di spirito nelle avanguardie artistiche del primo Novecento.

"L'avanguardia che ride" 

Bello, incisivo.  
Perfetto.

Passano tre giorni.

Erika mi telefona. Sai, mi dice. Anche io ho deciso il titolo della tesi.
Aveva fatto un lavoro bel sul cibo nelle commedie latine, un lavoro completamente diverso dal mio, si parlava di specie ittiche e cose commestibili che adesso neanche ricordo, non ha importanza. 
Che titolo? faccio io.

"Il pesce che ride"

Ammutolisco.

Eri?
Si?
Ti rendi conto hai copiato il mio?
Ecco perché mi era famigliare! 
...
...
Cambialo, va'. Che ci laureiamo anche lo stesso giorno.

Ho già fatto stampare la tesi.

Un buon capo capisce subito quando arriva il momento giusto per smettere di essere buono. Una buona amica prega di non commettere un omicidio, viene esaudita e tutto rimane come prima.




venerdì 21 ottobre 2011

Storia di una stagione.

Il freddo si è fatto umido, cammini per la strada e ti sembra che le ossa si siano imbevute d'autunno. Oggi le pozzanghere le schivo, una volta dividevo le acque come Mosè, aprendole in due con la bicicletta. Si pedalava veloci, poi sollevavo le gambe per evitare gli schizzi neri che mi avrebbero sporcato i calzini.
Quando le foglie cadevano era tempo di andare nel bosco, mi costringeva mia madre, perché io nel bosco non ci vengo, mi viene il prurito. 
E quando trovavo una salamandra la mettevo nel cestino dei fughi, posso mostrarla alla maestra, ti prego? Ci davo un nome e cercavo di capire di che colore avesse la lingua.

Quando viene il suo tempo la stagione ritorna, mi ci infilo dentro col cappotto di lana. Lei mi guarda, non mi riconosce. 
Sei cresciuta, mi dice. 
Capita a tutti, le rispondo.

Mi chiedo se, ogni anno che passa, lei non diventi più sola.