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lunedì 17 febbraio 2014

Short term 12

I film che ho guardato nell'ultimo mese sono stati tutti piuttosto gradevoli. Questo mi dà una certa soddisfazione, c'è stato un periodo, l'anno scorso, in cui ho collezionato una serie di epic fails, facendomi abbindolare da trailer realizzati meglio della pellicola che pubblicizzavano. Purtroppo.
Da squattrinata quale sono tifo lo streaming. E ieri sera con mia piacevole sorpresa sono incappata in un film delicato, di cui non avevo mai sentito parlare.

Short term 12 racconta la storia di Grace, una giovane assistente in un centro di recupero per adolescenti disadattati. Come sapete non mi piace spoilerare, né ho conoscenze cinematrografiche specifiche. Non vi parlerò della regia né della trama, solo di pensieri miei, privati e totalmente relativi.

Ritengo che l'adolescenza sia una fase della vita emotivamente complicata, difficilissima da raccontare. Spesso si tende a semplificarla, vengono evidenziati solo certi aspetti estremi, creando ragazzi caricatura, pieni di complessi fictionizzabili. Comunque vada non importa, un libro di Eleonora Caruso, a suo tempo non mi aveva convinto del tutto proprio per quella sensazione di problematicità esasperata e secondo me superficiale, profusa in tutto il libro.

In Short Term 12 la bravura del regista è stata quella di restituire la tenerezza a un'età così crudele. I personaggi sono di fatto adolescenti con gravissimi disturbi comportamentali, impregnati di tragedia perché di fatto hanno vissuto storie tragiche, che nulla hanno a che fare con i turbamenti degli adolescenti comuni. Nonostante ciò i protagonisti vengono dipinti con maestria senza ingigantire i particolari più traumatici, non serve. 
I personaggi acquisiscono una dimensione molto più ordinaria e meno sensazionale, ma più onesta e meno banale. 

Ne risulta un film sincero e pieno di grazia, secondo me di una bellezza rara.

venerdì 4 ottobre 2013

Furore

Da un paio di mesi faccio parte nuovamente di quel 40% di giovani costretti a casa. E visto che non ho un'entrata fissa devo darmi una regolata con le spese. Anche con i libri. Comprare meno libri è un brutto segno, ma in Italia ultimamente i brutti segni sono dappertutto.

Il fatto che io compri meno non significa che io legga meno. Anzi. Riconsidero quei classici che per mancanza di tempo o per pigrizia avevo abbandonato sugli scaffali della mia libreria, lasciando che si prendessero la polvere visto che non pulisco troppo spesso.

Furore non l'avevo ancora letto perché i miei, soprattutto mio padre, insistevano troppo nel consigliarmelo. Lo rifiutavo per principio. Di Steinbeck avevo amato Uomini e topi, ormai sono passati quattordici anni da quando al ginnasio avevamo dovuto scrivere la recensione.

Furore è considerato un classico del Novecento, racconta la storia di una famiglia di agricoltori e del loro viaggio in cerca di fortuna verso e in California.
Quello dei Joan è un pellegrinaggio straziante e senza fine. Non posso fare a meno di scoprire l'attualità amara del racconto di Steinbeck. C'è il lavoro stagionale, che come gli stage o i contratti a tempo determinato, ti condanna a rimanere attaccato alla famiglia, unica possibilità per sopravvivere, per provare a rimettersi in piedi e continuare a cercare.

Sembra che la stessa crisi di allora sia tornata oggi, come la morte, con lo stesso volto.
C'è un passo del libro che mi sono segnata. Dice:

Non faccio altro che ascoltare. E poi medito su quel che sento. Ascolto i poveri parlare, e capisco quanto soffrono. Sai cosa mi sembrano? Rondini rinchiuse in qualche soffitta, che sbattono le ali invano, e picchiano la testa contro i vetri polverosi della finestra.

Ecco. Anch'io guardo le rondini schiantarsi e morire. Rompono il vetro e dietro c'è un muro.

Furore termina con un'immagine pietosa, piena di bellezza e di una miseria commovente. Non ve la anticipo.

Se mai vivremo abbastanza a lungo per essere stormo, ci poseremo insieme sui fili della luce a guardare il colore del futuro che ormai tutti abbiamo dimenticato.


mercoledì 2 maggio 2012

Una pseudorecensione.

Vi scrivo per togliermi il peso che mi ha lasciato addosso il libro che ho appena concluso.
Ve ne parlo perché è stato un pugno nello stomaco, un pugno forte, sia chiaro.

Capita che legga una recensione, si tratta di Sofi Oksanen, Le vacche di Stalin.
La paragonano alla Kristof.
Chiudo il giornale, mi vesto e vado a ordinare il libro senza neanche stare tanto a rifletterci.
Devo averlo per scoprire se è vero. Punto e basta.

Estonia, Finlandia.
Vengo catapultata in due regioni grigie, che mai ho attraversato, né coi piedi né coi libri. Arrivo in terre dure, la Oksanen me le racconta attraverso due personaggi, Anna e sua madre Katariina. Che devono fare i conti con il senso di estraneità che ti si infila sotto la pelle quando non hai radici, sei in bilico su due mondi che non riesci a volere abbastanza, li guardi da lontano, così ti trovi a dover riempire una nostalgia.
La nostalgia di chi non ha una casa, Anna la riempie con il cibo.
Il cibo è utile solo se vomitandolo riesci a  svuotare lo stomaco dai sentimenti, vergogna o paura, fa lo stesso. Se li butti nel cesso puoi tirare lo sciacquone. Puoi dimenticarli.
In  Le vacche di Stalin la lontananza sa di fame. Quella patita in dagli antenati, nonni di Anna, deportati dall'Estonia in Siberia, e quella in cui la protagonista trova rifugio.

Lo so, non sono brava a scrivere recensioni, ma detesto dilungarmi in troppi dettagli. Questi devono bastare. Allo stesso modo, però, vorrei inondarvi di parole e scaricarmi .

Di fatto è vero.

La Trilogia della città di k e Le vacche di Stalin ti lasciano dentro la stessa sensazione, che è disorientamento, credo e anche miseria. Possono richiamarsi.
Non sono la stessa cosa, attenzione. Ma la scrittura, scarna e lucidissima, è un bisturi che si conficca sotto le costole e ti ferisce.

Non credo che quello della Oksanen sia un bel libro. Credo sia un buon libro. Probabilmente ottimo.
E' diverso.

Comunque, brava.
Da ricordarsene.